Il
medium è il massacro? di
Alberto Negri
(Articolo
apparso sulla rivista "Vita e Pensiero")
La guerra può essere raccontata
in modo obiettivo o almeno ci si può avvicinare alla realtà
dei fatti senza fare della propaganda per l’una o per l’altra
parte in campo?
A questo e ad altri interrogativi hanno cercato di rispondere, martedì
sera alla Casa della Cultura di Milano giornalisti, inviati di guerra,
fotoreporter di grandi giornali, di radio e di televisioni generaliste,
invitati per un dibattito in occasione della presentazione del libro
“Il medium è il massacro. Il giornalismo nella guerra
del Kosovo” a cura di Laura Tettamanzi nell’ambito di
News Laboratory, osservatorio sull’informazione progettato
dal settore Ricerca e Sviluppo di Mediaset.
Laura Tettamanzi, per una settimana si è recata a Belgrado
al fine di osservare dall’interno come lavorano le troupes
internazionali e le grandi agenzie giornalistiche in quello scenario
di crisi, irto di difficoltà immense che è il teatro
di una guerra in atto.
Questo lavoro di inserisce in un progetto di ricerca ad ampio raggio
su “Etica e credibilità dell’informazione”
portato avanti dal settore Ricerca e Sviluppo di Mediaset con la
direzione di Davide Rampello. Tale ricerca si propone di analizzare
come cambia il mondo delle news da tre punti di vista: la qualità
dell’informazione, al retorica della credibilità, la
deontologia e con essa i sistemi di autoregolamentazione adottati
dagli editori nei paesi europei e negli Stati Uniti.
La metodologia della ricerca è di tipo etnografico. La sua
peculiarità consiste nell’indagare i fenomeni, in questo
caso della produzione di notizie, quindi del e quindi si caratterizza
per l’applicazione della tecnica di osservazione partecipante,
dove cioè il ricercatore si trova ad essere pienamente coinvolto
nelle pratiche operative del contesto oggetto di analisi. I dati
vengono raccolti dal ricercatore presente nell’ambiente oggetto
di studio, sia con l’osservazione sistematica di quanto vi
accade, sia attraverso conversazioni più o meno informali
e occasionali o vere e proprie interviste, condotte con coloro che
svolgono i processi produttivi.
L’autrice dello studio, si è recata a Belgrado e a
Skopie all’inizio della crisi di guerra, e ha parlato, intervistato,
visto all’opera in presa diretta i reporter e i producer televisivi
della CNN, di SKYnews, della BBC, della NBC della Rai e di Mediaset,
oltre che gli inviati speciali delle grandi testate giornalistiche.
A loro sono state poste domande su aspetti etici e organizzativi
soprattutto in relazione al processo di controllo delle fonti. Tettamanzi
ha in questo modo indagato sul campo l’attività di
gatekeeping, cioè di selezione e filtro delle notizie, quei
cancelli che determinano quale informazione passa e quale viene
scartata. Nei mass media il gatekeeping include tutte le forme di
controllo dell’informazione, che possono determinarsi nelle
decisioni circa la codificazione dei messaggi, la selezione, la
formazione del messaggio, la diffusione, la programmazione, l’esclusione
di tutto il messaggio o di sue componenti.
Il problema di selezione e filtro nel caso della guerra si poneva
ai giornalisti e alle emittenti soprattutto a livello di controllo
della veridicità dei racconti sia dei profughi fuggiti dal
Kosovo, sia delle fonti militari NATO e in particolare di Belgrado.dove
a propaganda e informazione risultavano essere un connubio spesso
non districabile.
Una caratteristica dell’etnografia della comunicazione applicata
al newsmaking è di consentire l’osservazione dei momenti
e delle fasi di crisi, quando cioè si ridefiniscono in modo
congruente fenomeni ed eventi ambigui, incerti o poco chiari.
E questa guerra inaspettata, destinata a durare nel tempo rappresentava
un momento di grande crisi internazionale dove tutte le grandi organizzazioni
della comunicazione si trovavano impegnate con il massimo dispiegamento
di mezzi e uomini, vista l’importanza e la risonanza eccezionale
dell’evento bellico.
Dopo aver letto la puntuale ricerca etnografica di Laura Tettamanzi
emergono alcune indicazioni forti che vale la pena di esaminare
in modo dettagliato.
In primo luogo in tempo di guerra, ma anche nei momenti di crisi
in generale, tutte le fonti diventano automaticamente sospettabili.
Accanto alla realtà reale degli eventi si produce una realtà
seconda, artefatta.
In secondo luogo appare chiaro che i mezzi televisivi hanno raccontato
una guerra diversa da quella narrata dai giornali. Le televisioni
in generale hanno proposto un racconto finalizzato a legittimare
la bontà etica dell’intervento della NATO. La stampa
certamente ha approfondito i fatti con racconti e testimonianze
e ha per lo meno insinuato il dubbio sulla legittimità dell’intervento
armato.
Interessante e certamente ad alto impatto emotivo è stato
il filmato realizzato con una telecamera portatile Sony digital
da Giovanni Porta inviato di Radio Popolare, che ha vissuto per
qualche giorno insieme ai guerriglieri dell’UCK in azione
nel Kosovo. Egli ha registrato quello che le persone provano mentre
a poca distanza cadono le bombe nemiche. Il filmato ancora inedito
e presentato per la prima volta in Italia, anche se è già
stato acquistato dalla CNN e dalla BBC, rappresenta un eccezionale
documento sull’atrocità della guerra dove si vede un
uomo dell’UCK colpito a morte dalla scheggia di una granata,
mentre riceve sul posto i primi soccorsi concitati dai suoi compagni.
E’ questa un pezzo di guerra raccontato in diretta, cioè
senza mediazioni. Il reporter in questo caso è il testimone
oculare della tragedia.
Mimmo Lombezzi, inviato di Studio Aperto, ha parlato dell’assenza
dei media negli anni in cui una guerra civile era in atto nel Kosovo.
Nessuno se ne occupava perchè non faceva abbastanza audience
e quindi era ignorata. Lombezzi ha anche raccontato episodi di Albanesi
che rientrati in Kosovo stanno cercando la vendetta nei confronti
dei Serbi rimasti e della difficoltà per le truppe NATO di
proteggere in modo adeguato chi adesso si trova dalla parte delle
vittime.
Gigi Riva, inviato di “La Repubblica”, ha presentato
l’iniziativa di Milud, un giovane clown francese che si è
occupato dei bambini di Bucarest e che a giorni si recherà
in Kosovo e in Serbia per portare il sorriso ai bambini martoriati
dalla guerra.
Importante in questa guerra è stata anche Internet, la rete,
il mezzo elettronico che sostituisce le lettere dal fronte spedite
dai soldati nelle due guerre mondiali. “Messaggi di bottiglia
lanciati nel mare digitale di Internet” così definisce
Aldo Grasso, critico televisivo della Corriere della Sera, i messaggi
che arrivavano
via E-mail mentre cadevano le bombe della NATO. “Dialogando
per mezzo di una e-mail si dialoga con persone vive che, senza ideologie,
senza illusioni, stanno guardando in faccia la morte” osserva
Grasso nel suo intervento riportato nel libro sotto il titolo “Diario
di uno spettatore”.
Uno dei rischi su cui tutti gli intervenuti alla tavola rotonda
si sono trovati concordi è la criminalizzazione di tutto
un popolo: bande paramilitari che si muovevano nel Kosovo uccidendo
e torturando non possono essere confusi con tutto un popolo.
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